mercoledì 3 dicembre 2008

In ricordo di Franco Spinosi - 13

(Vedi il preambolo dedicato a
Franco Spinosi sul post n. 1)

Dalla Collana „Le Perle”:

Mons. Della Casa
GALATEO


Copyright by Franco Spinosi Editore
Editrice La Sfinge



Io incomincero’ da quello che io stimo che si convenga fare, per potere, in comunicando ed in usando con le genti, essere costumato e piacevole e di bella maniera.
Molti sono apprezzati assai, per cagion della loro piacevole e graziosa maniera.
I piacevoli modi e gentili hanno forza di eccitare la benevolenza di coloro coi quali noi viviamo; cosi’ per lo contrario i zotichi e rozzi incitano altrui ad odio ed a disprezzo.
A te convien temperare ed ordinare i tuoi modi, non secondo il tuo arbitrio, ma secondo il piacer di color co’ quali tu usi.
Non solamente non sono da fare in presenza degli uomini le cose laide, o fetide, o stomachevoli, ma il nominarle anche si disdice.
Non e’ dicevol costume, quando ad alcuno vien veduro per via, come occorre alle volte, cosa stomachevole il rivolgersi a’ compagni e mostrarla loro.
E molto meno il porgere altrui a fiutare alcuna cosa puzzolente, come alcuni sogliono fare con grandissima istanza, pure accostandocela al naso.
Il dirugginare i denti, il sufolare, lo stridere e lo stropicciar pietre aspre e il fregar ferro spiace agli orecchi; e deesene l’uomo astenere piu’ che puo’.
Sono ancora di quelli che, tossendo o starnutendo fanno si’ fatto strepito, che assordano altrui. E truovansi anco tale che sbadigliando urla o ragghia come asino: le quali sconce maniere si voglion fuggire, come noiose all’udire ed al vedere.
Dee l’uomo astenersi dal molto sbadigliare.
Ne’ per mio consiglio, porgerai tu a bere altrui quel bicchier di vino, al quale tu arai posto bocca ed assaggiatolo. E molto meno si dee porgere pera, o altro frutto, nel quale tu arai dato di morso.
Non si dee dire, ne’ fare cosa, per la quale altri dia segno di poco amare, o di poco apprezzar coloro, co’ quali si dimora.
Il frizzarsi, ove gli altri seggano o favellino, e passeggiar per la camera pare noiosa usanza.
Male fanno coloro, che ad ora ad ora si traggono una lettera dalla scarsella e la leggono. Peggio ancora fa chi, tratte fuori le forbicine, si da’ tutto a tagliarsi le unghie.
Non si deono anco tener quei modi, che alcuni usano; cioe’ cantarsi fra’ denti, o sonare il tamburino con le dita, o dimenar le gambe; percio’ che questi cosi’ fatti modi mostrano che la persona non sia curante d’altrui.
Oltre a cio’ non si vuol l’uomo recare in guisa, che egli mostri le spalle altrui.
Dee l’uomo recarsi sopra di se’ e non appoggiarsi ne’ aggravarsi addosso altrui.
Quando favella, non dee punzecchiare altrui col gomito, come molti soglion fare ad ogni parola.
Ben vestito dee andare ciascuno, secondo sua condizione e secondo sua eta’; percio’ che, altrimenti facendo, pare egli sprezzi la gente.
Si dee l’uomo sforzare di ritrarsi piu’ che puo’ al costume degli altri cittadini e lasciarsi volgere alle usanze.
E se tutta la tua citta’ avera’ tonduti i capelli, non si vuol portare la zazzera.
Contradire nel costumar con le persone, non si dee fare, se non in caso di necessita’.
Sono poi certi che hanno risguardo solo a se’ stessi ed all’agio loro; e d’altrui niuna considerazione cade loro nell’animo.
Alcuni sono si’ bizzarri e ritrosi e strani, che niuna cosa a lor modo si puo’ fare; e sempre rispondono con mal viso, che loro si dice; e mai non rifinano di garrire a fanti loro e di sgridarli e tengono in continua tribolazione tutta la brigata. Modi tutti sconvenevoli e dispettosi; i quali si deono fuggire come la morte.
La superbia non e’ altro, che il non istimare altrui.
Vuole ciascun nostro atto avere alcuna significazion di riverenza e rispetto verso la compagnia nella quale siamo.
E’ biasimevole cosa il dir villania a’ famigliari, e lo sgridarli e guastarsene la conversazione; e maggiormente se altri cio’ fara’ a tavola, che e’ luogo d’allegrezza e non di scandalo.
Non ista’ bene, che altri si adiri a tavola, che che si avvenga; e adirandosi, no ‘l dee mostrare, ne’ del suo cruccio dee fare alcun segno e massimamente se tu arai forestieri a mangiar con esso teco; percio’ che tu li hai chiamati a letizia ed ora li attristi.
Il vedere che altri si cruccia, turba anche noi.
Ritrosi sono coloro che vogliono ogni cosa al contrario degli altri, la ritrosia consiste in opporsi al piacere altrui, il che suol fare l’uno inimico all’altro. Sforzinsi di schifar questo vizio coloro che studiano di essere cari alle persone.
Non si vuole essere, ne’ rustico, ne’ strano; ma piacevole e domestico. E sappi che colui e’ piacevole, i cui modi sono tali nella usanza comune, quali costumano di tenere gli amici infra di loro.
Conviene che altri si avvezzi a salutare e favellare e rispondere per dolce modo; e dimostrarsi con ognuno quasi terrazzano e conoscente: il che male sanno fare alcuni.
Alcuni a nessuno mai fanno buon viso; e volentieri ad ogni cosa dicon di no; e non prendono in grado ne’ onore ne’ carezza che loro si faccia. Sono adunque costoro meritatamente poco cari alle persone.
Non ista’ bene di essere malinconico, ne’ astratto la’ dove tu dimori.
Alcuni si crucciano, se voi non foste si’ presto e sollecito a salutarli, a visitarli, a riverirli ed a risponder loro, come un altro farebbe di una ingiuria mortale. Costoro veramente non e’ chi li possa vedere; percio’ che troppo amano se’ medesimi fuor di misura; ed in cio’ occupati, poco di spaio avanza loro di poter amare altrui.
Di niuna bruttura si dee favellare: come che piacevole cosa paresse udire; percio’ che alle oneste persone non ista’ bene di studiar di piacere altrui, se non nelle oneste cose.
Ne’ contra Dio, ne’ contr’a’ santi, ne’ da dovero, ne’ motteggiando, si dee mai dire alcuna cosa; quantunque per altro fosse leggiadra o piacevole.
Nota che il parlar di Dio gabbando, non solo e’ difetto di scellerato uomo ed empio; ma egli e’ ancor vizio di scostumata persona; ed e’ cosa spiacevole ad udire; e molti troverai che si fuggiranno di la’, dove si parli di Dio sconciamente.
Non solo di Dio si conviene parlare santamente, ma in ogni altro ragionamento dee l’uomo schifare quanto puo’, che le parole non siano testimonio contro la vita e le opere sue; perche’ gli uomini odiano in altrui eziandio i loro vizii medesimi.
Simigliarmente si disdice il favellare delle cose molto contrarie al tempo ed alle persone, che stanno ad udire.
Ne’ a festa, ne’ a tavola si raccontino istorie malinconiose, ne’ di piaghe, ne’ di malattie, ne’ di morti o di pestilenzie, ne’ di altra dolorosa materia si faccia menzione o ricordo.
Non ista’ bene di contristare gli animi delle persone con cui favelliamo; massimamente cola’, dove si dimori per aver festa e sollazzo e non per piagnere.
Erano parimente coloro, che altro non hannno in bocca giammai che i loro bambini e la donna, e la balia loro.
Male fanno ancora quelli, che tratto tratto si pongono a recitar i sogni loro con tanta affezione e facendone si’ gran maraviglia, che e’ uno sfinimento di cuore a sentirli.
Non si deve adunque notare altrui con si’ vile materia come i sogni sono, spezialmente sciocchi, come l’uomo li fa generalmente.
A lungo andare i bugiardi non solamente non sono creduti; ma essi non sono ascoltati; si’ come quelli, le parole de’ quali niuna sostanza hanno in se’, ne’ piu’ ne’ meno come s’eglino non favellassino, ma soffiassino.
E sappi, che tu troverai di molti, che mentono a niun cattivo fine tirando ne’ di proprio loro utile, ne’ di danno o di vergogna altrui; ma percio’ che la bugia per se’ piace loro; come chi bee, non per sete, ma per gola del vino.
Le maniere piene di beffe e di vanagloria, la quale viene da superbia, procedente da vanita’, si deono fuggire, come spiacevoli e sconvenienti cose.
Ne’ dee l’uomo di sua nobilta’, ne’ di suoi onori, ne’ di ricchezza, e molto meno di senno vantarsi; ne’ i suoi fatti, o le prodezze sue, o de’ suoi passati molto magnificare, ne’ ad ogni proposito annoverarli, come molti soglion fare.
Non dee adunque l’uomo avvilirsi, ne’ fuori di modo esaltarsi. Ne’ vantare ci dobbiamo de’ nostri beni, ne’ farcene beffe.
Dee di se’ ciascuno, quanto puo’ tacere, o, se la opportunita’ ci sforza a pur dir di noi alcuna cosa, piacevol costume e’ di dirne il vero rimessamente.
Ogni bugia, che si dice per utilita’ propria, e’ fraude e peccato e disonesta cosa.
Non e’ lecito porger diletto nocendo.
Convienci ubbidire non alla buona, ma alla moderna usanza.
Siamo ubbidienti alle leggi eziandio meno che buone, per fino che il Comune, o chi ha podesta’ di farlo non le abbia mutate.
Nelle cose che niuna scelleratezza hanno in se’, ma piu’ tosto alcuna apparenza di cortesia, si vuole, anzi si conviene ubbidire a’ costumi comuni, e non disputare ne’ piatire con esso loro.
Partendo e scrivendo dei salutare e accomiatare non come la ragione, ma come l’usanza vuole che tu facci.
Si dee aver riguardo al paese dove l’uom vive; percio’ che ogni usanza non e’ buona in quel paese.
Bisogna avere riguardo al tempo, all’eta’, alla condizione di colui, con cui usiamo le cerimonie, ed alla nostra.
Chi sa carezzar le persone, con picciolo capitale fa grosso guadagno.
D’altrui ne’ delle altrui cose non si dee dir male.
Le persone schifano l’amicizia de’ maldicenti, facendo ragione che quello che essi dicono d’altri a noi, quello dichino di noi ad altri.
Se pure alcuna volta avviene, che altri disputi invitato dalla compagnia, si vuol fare per dolce modo.
Il profferire il tuo consiglio, non richiesto, niuna altra cosa e’ che un dire di essere piu’ savio di colui, cui tu consigli; anzi un rimproverargli il suo poco sapere e la sua ignoranza.
Nella comune usanza si dee l’uomo astenere di dar consiglio.
Chi va proferendo e seminando il suo consiglio, mostra di portar openione che il senno a lui avanzi e ad altri manchi.
Coloro che si affaticano a purgare l’altrui campo mentre il loro medesimo e’ tutto pieno di pruni e di ortica, e’ troppo gran seccagine il sentirli.
Non e’ dilettevol costume lo esser voglioso di correggere e di ammaestrare altrui.
Schernire non si dee mai persona, quantunque inimica.
Chi si ride d’alcuno sformato o malfatto o sparuto o picciolo; o di sciocchezza che altri dica e si diletta di fare arrossire altrui, sono dispettosi modi meritamente odiosi.
Chi procaccia di essere ben voluto e avuto caro, non debba troppo farsi maestro di beffe.
Coloro che sanno beffare per amichevol modo e dolce, sono piu’ amabili che coloro che nol fanno.
Non si deve motteggiare nelle cose gravi e meno nelle vituperose opere.
Dove non ha luogo il ridere, quivi si disdice il motteggiare e il cianciare.
Quegli che dice altrui alcuna grave villania, sia gravemente punito.
Ne’ per far ridere altrui si vuol dire parole, ne’ atti vili ne’ sconvenevoli, storcendo il viso e contraffacendosi; che’ niuno dee, per piacere altrui, avvilire se’ medesimo; che e’ arte non di nobile uomo, ma di giocoliere e di buffone.
Dico che le parole vogliono essere chiare: il che avverra’, se tu saprai scegliere quelle che sono originali di tua terra, che non siano pero’ antiche tanto che elle siano divenute rance e viete.
Dee ciascun gentiluomo fuggir di dire le parole meno che oneste.
Quelli che sono, o vogliono essere ben costumati, procurino di guardarsi, non solo dalle disoneste cose ma ancora dalle parole.
Bisogna che tu ti avvezzi ad usare le parole gentili e modeste e dolci, si’ che niuno amaro sapore abbiano.
E’ cortese ed amabile usanza lo scolpare altrui, eziandio in quello, che tu intendi incolparlo.
Non si dee recar in dubbio la fedealtrui.
La voce non vuole essere ne’ roca ne’ aspra. E non si dee stridere, ne’ per riso o per altro accidente cigolare, come le carrucole fanno. Ne’, mentre che l’uomo sbadiglia, pur favellare.
Non ista’ bene alzar la voce a guisa di banditore; ne’ anco si dee favellare si’ piano, che chi ascolta non oda.
Se tu non sarai udito la prima volta; non dei dire la seconda ancora piu’ piano; ne’ anco dei gridare; accio’ che tu non dimostri d’imbizzarrire, percio’ che ti sia convenuto replicare quello che tu avevi detto.
Tu saprai scegliere fra le parole del tuo linguaggio le piu’ pure, le piu’ proprie e quelle che miglior suono e miglior significato aranno, senza alcuna rammemorazione di cosa brutta ne’ laida ne’ bassa.
Tu non parlerai si’ lento, come svogliato, ne’ si’ ingordamente come affamato; ma come temperato uomo dee fare.
Alcuni tanta ingordigia hanno di favellare, che non lasciano dire altrui.
Il rompere altrui le parole in bocca e’ noioso e spiace, non altrimenti che quando l’uomo e’ mosso a correre, ed altri lo ritiene.
Dal troppo favellare conviene che gli uomini costumati si guardino, spezialmente poco sapendo.
Come il soverchio dire reca fastidio; cosi’ reca il soverchio tacere odio.
Non e’ vero che incontro alla natura non abbia freno ne’ maestro; anzi ve n’ha due, che l’uno e’ il costume, e l’altro e’ la ragione.
I modi piacevoli sono quelli, che porgon diletto, o almeno non recano noia ad alcuni de’ sentimenti ne’ all’appetito, ne’ alla immaginazione di coloro co’ quali noi usiamo.
Gli uomini sono molto vaghi della bellezza e della misura e della convenevolezza; e per lo contrario delle sozze cose e contraffatte e difformi sono schifi.
L’uomo si dee vestire all’usanza che si vestono gli altri, accio’ che non mostri di riprenderli e di correggerli.
Non si dee adunque l’uomo contentare di fare le cose buone; ma dee studiare di farle anco leggiadre.
Innanzi ad ogni altra cosa conviene, a chi ama di esser piacevole, in conversando con la gente, il fuggire i vizii; e piu’ i sozzi: come la lussuria, avarizia, crudelta’ e gli altri, come lo essere goloso e lo inebriarsi.
Conviensi adunque alle costumate persone avere riguardo a questa misura che io t’ho detto, nello andare, nello stare, nel sedere, negli atti, nel portamento e nel vestire, e nelle parole, e nel silenzio, e nel posare, e nell’operare.
Non si dee l’uomo ornare a guisa di femmina.
Non si vuole ne’ putire ne’ olire.
I tuoi panni convien che sieno secondo il costume degli altri di tuo tempo o di tua condizione; che’ noi non abbiamo potere di mutar le usanze a nostro senso, ma il tempo le crea e consumale altresi’ il tempo.
Dobbiamo adunque procacciare, che la vesta bene stia non solo al dosso, ma ancora al grado di chi la porta; ed oltre a cio’ che ella si convenga eziandio alla contrada, ove noi dimoriamo.
Non dee l’uomo nobile correre per via, ne’ troppo affrettarsi; che cio’conviene a palafreniere, e non a gentiluomo: senza che, l’uomo s’affanna e suda ed ansa; le quali cose sono disdicevoli.
Ne’ si dee andare si’ lento ne’ si’ contegnoso, come femmina o come sposa.
In camminando, troppo dimenarsi disconviene.
Ne’ le mani si vogliono tenere spenzolate, ne’ scagliare le braccia, ne’ gittarle si’, che paia che l’uom semini le biade nel campo.
Ne’ affissare gli occhi nel viso altrui, come se egli vi avesse alcuna meraviglia.
Sono alcuni che in andando levano il pie’ tanto alto come cavallo che abbia lo spavento; e pare che tirino le gambe fuori d’uno staio.
Altri percuote il piede in terra si’ forte, che poco maggiore e’ il romore delle carra.
Tale gitta l’uno dei piedi in fuori. E tale brandisce la gamba. Chi si china ad ogni passo a tirar su le calze. E chi scuote le groppe e pavoneggiasi, le quali cose spiacciono non come molto ma come poco avvenenti.
Non ista’ bene grattarsi, sedendo a tavola; e vuolsi in quel tempo guardar l’uomo, piu’ che e’ puo’ di sputare e, se pure si fa facciasi , per acconcio modo. Dobbiamo eziandio guardarci di prendere il cibo si’ingordamente, che per cio’ si generi singhiozzo o altro spiacevole atto; come fa chi s’affretta si’, che convenga che egli ansi e soffi con noia di tutta la brigata.
Non ista’ medesimamente bene a fregarsi i denti con la tovaglia, e meno col dito, che sono atti difformi.
Ne’ risciacquarsi la bocca e sputare il vino, sta bene in palese.
Ne’ in levandosi da tavola portar lo stecco in bocca a guisa d’uccello, che faccia suo nido.
Non si conviene anco lo abbandonarsi sopra la mensa. Ne’ lo empiersi di vivanda ambedue i lati della bocca si’, che le guance ne gonfino.
Non si vuole fare atto alcuno, per lo quale altri mostri, che gli sia grandemente piaciuta la vivanda o ‘l vino, che sono costumi da tavernieri.
Non dei tu rifiutar quello che ti e’ porto; che pare che tu sprezzi o che tu riprenda colui che ‘l ti porge.
Non si dee alcuno spogliare, e spezialmente scalzare, in pubblico, cioe’ la’ dove onesta brigata sia! Che’ non si confa’ quello atto con quel luogo.
Ne’ pettinarsi, ne’ lavarsi le mani si vuole tra le persone; che sono cose da farsi nella camera e non in palese, salvo (io dico del lavar le mani) quando si vuole ire a tavola; percio’ che allora si convien lavarsele in palese, quantunque tu niun bisogno ne avessi.
Non si vuole medesimamente allacciarsi le calze in presenza della gente.
Ne’ ista’ bene gittar sospiri, e metter guai. Ne’ stropicciar le mani l’un con l’altra.
Non si voglion fare risa sciocche, ne’anco grasse e difformi.
Ne’ de’ tuoi medesimi motti voglio che tu rida; che e’ un lodarti da te stesso. Egli tocca ridere a chi ode, e non a chi dice.
Tutto quello che ha in se’ soave sapore ed acconcio, fu condito per mano della leggiadria e della avvenentezza.

Condividi su Facebook, Twitter o Google Buzz:
Condividi su Facebook Condividi su Twitter Pubblica su Google Buzz

Nessun commento:

Posta un commento