venerdì 29 ottobre 2010

Il vuoto dentro

Apatia. Apatia e indifferenza. Da quando la bestia è uscita allo scoperto, mi accorgo che mi sto lasciando andare. Non rabbia, non imprecazioni né frustrazioni esterne ma semplice abbandono, dolce come un anestetico. Combatto le naturali reazioni emotive esterne con l'inerzia più totale. Succede, talora, di svegliarsi con un braccio o una mano “addormentati”. Ecco, mi trovo in questa condizione. Il cervello comanda alle dita di muoversi, ma queste sono assenti e prive di forza.
So che devo reagire e attendo di giorno in giorno un segno in tal senso. Intorno a me affetto e amore che mi spronano, devo assolutamente uscire da questo pericoloso torpore. Sono trascorsi ventitre giorni e la settimana prossima dovrò rientrare in ospedale. Forse è l'attesa di questo consapevole ignoto a rendermi così abulico; in contrapposizione ho ripreso a fumare quelle sigarette che i primi giorni avevo ignorato... ecco, adesso la spengo. O forse è solo vigliaccheria, aver vissuto sempre in buona salute, paura di quel lungo viale semibuio che sto percorrendo, non sapere se in fondo c'è una panchina o un burrone.
Dieci giorni, altri dieci giorni e poi dovrò affrontarti, bestiaccia maledetta, non voglio sapere come ti chiami né di che razza sei... ho ancora tanti progetti e non sarai certamente tu a vanificarli, anzi! Se è vero che il bene vince sempre sul male, proprio tu mi hai ricongiunto ad affetti dai quali mi ero allontanato, che adesso voglio godermi per sempre nella loro interezza.

giovedì 21 ottobre 2010

Quella lunga giornata a Pazardjik - 2

Giovedì 7 ottobre, ore 6,15
Arriva Maria con l'infermiera per misurare la temperatura. Tutto a posto. Giro lo sguardo nella stanza. Camicia, giubbotto e golf appesi alla spalliera di una sedia mentre i pantaloni li ho appoggiati sul comodino accanto. Fortunatamente sono il padrone della stanza. Darina è stata brava a imbucarmi in una stanza libera. Infermiere e ausiliarie sono molto gentili. Sul comodino la bottiglia di minerale ancora integra, bicchiere, telefonino e sigarette (per fumare bisogna uscire nell'androne). Croissants per eventuale fame (ma non posso mangiare), asciugamani e carta igienica, posate e tovaglioli portati da casa, che non avrò occasione di usare.


INUTILE OGNI COMMENTO
Alle sette sento finalmente il bisogno di scaricare le eccedenze, la tensione accumulata aveva bloccato ogni stimolo. Entro in quello che dovrebbe essere il bagno per i pazienti. Antibagno con una fila continua di lavandini cui sono attaccati un'infinità di altri tubi, un angolo fa da deposito ai secchi per le pulizie, di fronte due cessi con due porte che non si chiudono, nel primo a destra non funziona lo scarico che è sigillato, in quello a sinistra si entra al buio perché manca la lampadina. Mi affido, sempre più in cuor mio, alla bravura dei medici e alla gentilezza delle infermiere, anche perché non potrei più scappare. Qui tutto quello che circonda il paziente è difficile possa essere da supporto alla sua guarigione.
In Italia siamo arrivati ai diritti del malato, in Bulgaria basterebbe solo il diritto alla dignità della persona. E' difficile dover accettare e digerire condizioni igieniche da quarto mondo. Tanto di cappello alla dignitosa povertà, ma sullo schifo igienico negli ospedali non si può passar sopra, ne va della salute del paziente, che l'ospedale ha il dovere di preservare, e della stessa dignità degli operatori sanitari che vi operano. Sto parlando di questo ospedale e di tanti altri nelle stesse condizioni, ma vi sono anche realtà diverse in quelli nuovi o privati. Né penso che l'Italia sia ancora del tutto esente da queste vergogne.
Entra un'ausiliaria che cerca, con scopa e straccio, di rendere decente un misero pavimento coperto dal linoleum. Adesso è spiovuto e dalla finestra mi arriva il cinguettio di qualche passerotto. Mi sono buttato sul notes per occupare il cervello e dimenticare le latrine. Guardo l'orologio: 7,45, alle nove dovrei entrare in sala operatoria, ma niente intorno a me fa supporre il prossimo evento. Smetto di scrivere e aspetto mentre in lontananza sento il vociante chiacchiericcio di due infermiere.
Passano Maria e un'infermiera che sa qualche parola d'italiano. Hanno finito il turno e vengono a salutarmi e farmi gli auguri. Esco a fumare una sigaretta. Rifletto che probabilmente sono il primo italiano scemo ad operarsi in questo ospedale, o il più incosciente. Una vecchietta obesa con una busta in mano, con passo malfermo si avvicina all'ingresso, probabilmente viene a trovare il marito ricoverato. Butto la sigaretta e rientro nella mia stanza.
Mentre passeggio nervosamente arrivano Renata e Sevda e poi anche Darina che ci consiglia di mettere al sicuro orologio, portafoglio, cellulare, ecc. C'è la possibilità che possa entrare qualche zingaro/a a far man bassa. Vorrei ricominciare a scrivere, ma entra una bella signora che non conosco, è l'anestesista... Devo andar via, a dopo, spero...

(queste annotazioni riprendono dopo alcuni giorni)
La sala operatoria è un enorme stanzone separato da tre pannelli divisori a giorno ad indicare ogni singola postazione. Mi fanno spogliare e nudo dalla cintola in giù mi fanno sedere sul letto operatorio, l'anestesista mi pratica una iniezione alla schiena e poi mi stendono a gambe ginecologicamente divaricate. Attorno a me sei infermiere che trafficano sorridendo. In qualsiasi altra occasione mi sentirei ridicolo, ma sono talmente teso e nervoso da non ricordare neanche la posizione in cui mi trovo. Dopo dieci minuti non sento più le gambe. Nella sala è un andirivieni continuo, sembra la hall di un albergo, e io dovrei essere il protagonista principale dell'opera; un'infermiera mi domanda in un italiano stentato se sento dolore... no, non sento niente, si accende un monitor a colori e assisto all'intervento che il dottor Velev sta iniziando.
Mi sembra di assistere a un film, seguo dei meandri sconosciuti, un filo con una specie di anello in punta taglia o brucia quelle che per me appaiono come alghe bianche appese alle pareti; il tutto si protrae per un tempo, per me, interminabile, poi inizio a sentire qualche dolore perché l'intervento è più lungo del previsto. Evidentemente passano all'anestesia totale, perché, dopo essermi lamentato del dolore, passo quasi subito tra le braccia di Morfeo...

CON IL Dr. DIMITAR VELEV
Mi sveglio, agitatissimo, nel letto della mia camera, farfugliando parole sconnesse e imprecando per il dolore. Una squadra di calcio dev'essersi allenata con le mie palle. Mi somministrano degli antidolorifici e dopo un'oretta entro in un dormiveglia meno agitato. A parte fastidi e dolori connessi all'operazione sembra che tutto sia andato bene. La notte è stata lunghissima ma il mattino successivo il dottor Velev mi trova in buone condizioni. Alla mia domanda quando pensa di dimettermi mi risponde che posso uscire anche subito, ma portandomi dietro il catetere. Aiiòòò!!! Mi mandano a fare una radiografia con il tubo di drenaggio e dopo due ore sto già a casa. Per inciso il costo totale del mio ricovero è stato di 96 leva che dovrebbe essere la spesa per il tubo di drenaggio.
Non so come né quando finirà questa storia, perché il danno è serio e vecchio, ma voglio e devo ringraziare pubblicamente Dimitar Velev, il giovane medico che mi ha operato, e tutto lo staff della sala operatoria, perché – pur nella ristrettezza di mezzi e scadimento ambientale – sono stati validi professionalmente e meravigliosi nell'accoglienza.
Il seguito è storia che interessa solo me. Probabilmente a Plovdiv, dove è stata mandata in esame la mia biopsia, calendarizzeranno i controlli ai quali dovrò sottopormi periodicamente, forse cambierà anche il mio modo di vivere, ma questo fa parte della dinamicità della vita. E così è arrivata la prima volta anche per me.
Restando sempre in tema di sanità bulgara, molto probabilmente (ma dovrò accertarlo prossimamente) molti medicinali, che in Bulgaria sono a pagamento, mi saranno riconosciuti gratuitamente, mentre penso di risolvere presto anche un altro problema che riguarda i cittadini italiani residenti in Bulgaria. Infatti, indubbiamente per mia ignoranza, per ottenere l'assistenza sanitaria nazionale bulgara, ogni mese ho versato per quattro anni una somma che è variata nel tempo dalle 6,60 ai 16,80 leva. Bisogna, invece, richiedere alla vecchia Asl di appartenenza o all'Inps per i pensionati, il formulario del mod. S073 che sostituisce il mod. E121, e presentarlo al servizio sanitario bulgaro. Questo documento dovrebbe dare diritto all'assistenza sanitaria senza dover pagare alcunché. Nel momento in cui queste notizie diventeranno realtà ne darò notizia in appendice al blog.
(Per inciso, per i pensionati, mi sento di dover fare un appunto all'Inps e alla farraginosità della nostra burocrazia e dei nostri diritti. L'Inps e la Asl di appartenenza, che sanno che siamo residenti all'estero, perché non procedono automaticamente inviandoci il documento di cui si parla? Forse quel mostro chiamato burocrazia, vuole movimentare un po' questa nostra vita troppo sedentaria...).

lunedì 11 ottobre 2010

Quella lunga giornata a Pazardjik

Mercoledì 6 ottobre, ore 16.30. Renata e Sevda mi hanno accompagnato e dopo mezz'ora sono già andate via. Resto solo nella camera 3.50x4.80. Tre letti, tre comodini in ferro, tre bracci per flebo, un televisore a ore, un minilavabo sormontato da un piccolo specchio, un enorme vecchio finestrone a vetri riparato da una grata in ferro, il tutto nei colori bianco su pareti giallognole. Chiamare spartani la stanza e l'arredamento è un eufemismo, qui invero si respira una dignitosa povertà, coperta dalla vernice bianca che vorrebbe nascondere la ruggine.
Sono entrato all'ospedale civico di Pazardjik, risalente al regime di Todor Jivkov, un ammasso di costruzioni fatiscenti che lentamente, ma molto lentamente, si cerca di rendere presentabili. Domattina dovrò essere operato per un non meglio precisato (per il mio scarso bulgaro) tumore o cisti o escrescenza o che diavolo sia alla vescica. Il silenzio della stanza è rotto dalla pioggia che da ieri cade sulla città. Ben poca cosa rispetto ai nubifragi abbattutisi su Liguria e Toscana. Dalla finestra una stradina che corre lungo l'isolato, alberi e aiuole ancora fiorite che qui non mancano mai, sovrastati da un cielo ancora chiaro ma plumbeo. Tra poco il buio coprirà tutto e resterà lo scroscio dell'acqua che continua a scendere copiosa.
Un tavolo e due sedie non menzionate prima contribuiscono a riempire la stanza. Da qui annoto queste righe per non pensare a domani e dare un po' di sfogo al magone che quatto quatto sta avvolgendo il mio stomaco. Per chi, nel corso della vita, è entrato negli ospedali soltanto per far visita a parenti e amici o donare talvolta il sangue, esservi ospite per la prima volta da paziente è dura. Anche il più piccolo intervento di routine intimorisce quanto un trapianto di cuore. E poi il cervello, che non puoi spegnere, pensa: andrà tutto bene e continuerò la vita come prima o entrerò nell'elenco delle tante vittime della malasanità, dove si può morire anche per la rottura di un braccio o l'asportazione delle tonsille? Sì, ma questo succede in Italia. E se succede in Italia, figuriamoci in Bulgaria... Non conosco le statistiche degli ospedali bulgari, ma prego che – nonostante le strutture obsolete e fatiscenti – vi siano almeno, a far da contrappeso, buoni medici.
Inizia tutto martedì scorso. Mi sveglio presto e, prima ancora di mettere sul fuoco la caffettiera preparata la sera prima, mi infilo nel bagno per svuotare la vescica. Noto sulla tazza del gabinetto una goccia rossastra. Mi era già successo alcuni mesi prima di orinare sangue, ma il giorno in cui il medico di famiglia mi prescriveva le analisi del caso, nello stesso pomeriggio espellevo naturalmente un piccolo calcolo, e tutto è finito lì. Adesso questa nuova goccia mi riporta all'esperienza precedente. Infatti orino di nuovo sangue, ma questa volta per l'intera giornata. Tutto questo, associato ad altri piccoli bruciori durante la minzione, mi fa correre dal medico che mi prescrive due ecografie: renale e prostatica.
Un lev di ticket al medico e un lev per le ecografie all'ospedale Eskulap (sono pensionato e ho diritto alla riduzione). L'ospedale si trova di fronte alla palazzina dove abito, quindi sono contento di poter fare casa e bottega. L'ecografia renale va bene ma appare qualcosa di anomalo in quella prostatica. Lo specialista dice a Nadia, l'amica bulgara che mi ha accompagnato per la traduzione, che bisognerebbe fare una risonanza magnetica per avere più certezze. Non so quando imparerò qualcosa di accettabile della lingua bulgara, nel linguaggio prettamente medico e tecnico, poi, non voglio neanche pensarci. Per la risonanza bisogna pagare un ticket di 63 leva. Occhei. Il giorno dopo, al piano superiore, mi trovo steso su una base che mi porta entro un semicerchio che mi sovrasta, zum tac zum tac, avanti fermo indietro, davanti agli occhi led bianchi gialli e verdi che si accendono in alternanza quasi ipnotizzandomi. Un'ora prima di stendermi su quell'aggeggio ho dovuto bere mezzo litro di cicuta fornitami dall'ospedale gratuitamente, adesso occorre iniettare ancora un liquido che dovrebbe essere di contrasto. Occhei, altre 45 leva.
Dopo un'ora abbiamo il risultato della risonanza. Lo specialista analizza i risultati e mi consiglia di fare una cistoscopia e una biopsia da mandare a Plovdiv per l'esame. Prendiamo appuntamento, anche per riprendere fiato, per il martedì successivo alle ore 8.30 a digiuno. Altre 82 leva.
Queste righe, lette d'un fiato, potrebbero passare quasi inosservate. Invece è trascorsa quasi una settimana, con uno stato d'animo difficile a descrivere, pensieri che si accavallano e offuscano il cervello, e d'un tratto mi rendo conto di quante cose avrei voluto fare e non ho fatto, rimane ancora in sospeso il progetto per il quale è cambiata la mia vita, e dentro sento un vuoto che in questo momento nessuno può riempire, perché sono solo, solo con me stesso. Faccio un sorriso o una battuta di circostanza agli amici che mi fanno coraggio, rientro a casa e sento – a pelle – la paura di chi ha condiviso con me questa vita che avrebbe potuto essere serena ed accettabile e che invece, proprio per le sue poliedriche sfaccettature, si sta rivelando anche disgraziata e colma di incertezze e di dolore. Ci guardiamo negli occhi senza parlare. Colgo un attimo di disattenzione mentre sta cucinando. Le vado dietro, la giro verso di me e ci abbracciamo. Ci stacchiamo con gli occhi lucidi, sempre in silenzio.
Va bene, è andata come è andata. Bisogna accettare quello che arriva. Supererò senz'altro la prova. Domani ritornerò all'Eskulap e vediamo cosa succede. E invece no. La scena cambia alle nove di sera.
Su skype ci telefona Darina, moglie del nostro amico “carabinero”, al quale avevo confidato – incontrandolo tre giorni prima – i miei problemi. Darina è figlia dei nostri amici bulgari Velo e Maria e oltre a essere anche amica nostra, è caposala al reparto Urologia dell'ospedale civico, mentre la madre è ausiliaria nello stesso reparto. Non riusciamo a capirci, per cui chiama a Roma la cugina Tania, anch'essa nostra amica, che, a sua volta, traduce cosa vuol dirci Darina: “Domani Antonio non deve andare all'Eskulap. Digli, per favore, di venire assolutamente da me in ospedale domattina alle ore 10 e vediamo insieme cosa bisogna fare”.

IL MIO LETTO ALL'OSPEDALE
Dopo lunghe tergiversazioni e discussioni, decido di saltare l'appuntamento all'Eskulap e il giorno dopo, alle 10, vado all'ospedale civico accompagnato da Renata e Sevda. In ogni caso, in un momento così delicato, avere amici che mi stiano così vicini è un grande conforto. Darina ci presenta il dottor Dimitar Velev, un giovane medico di 37 anni, dall'aspetto simpatico e rassicurante, al quale facciamo vedere la documentazione acquisita fino a quel momento. Mi fa subito un'altra ecografia prostatica. Un ulteriore, vecchio esame manuale, esclude qualsiasi problema alla prostata, confermandomi invece quello alla vescica. (Per molti anni ho temuto questo famigerato “dito al culo”, accorgendomi – in cinque secondi al massimo – che non solo non viene meno la nostra mascolinità, ma forse potremmo comprendere meglio le “diversità”).
Il dottor Velev mi conferma che bisogna operare, rassicurandomi che con un piccolo intervento con il laser si dovrebbe risolvere tutto. Mi domanda se voglio farmi operare nell'ospedale scusandosi per il dissesto dell'ambiente e mi dice che, volendo, posso andare in qualsiasi altro ospedale più moderno. Le parole e la sicurezza di questo giovane medico mi convincono delle sue capacità professionali più che ogni altra moderna ed accogliente struttura.
Ero già entrato altre volte in questo ospedale a far visita ad amici ricoverati e ricordo di aver pensato che se un giorno vi fossi entrato come paziente, sarei morto prima di entrarvi. E invece eccomi qua, unico ospite nella stanza. Sono quasi le dieci, l'ospedale è immerso nel silenzio, spengo la luce e sento solo il rumore delle gocce che battono sulla finestra, che il buon Dio continua a mandare, forse, per accompagnarmi in questa lunga notte, mentre il riverbero di un lampione vicino irradia nella stanza una luce quasi soffusa...
Domani sarà un altro giorno.
(Questo post, probabilmente, avrà un continua..., che spero di poter raccontare con animo un po' più sereno).